sabato 22 ottobre 2016

I sotterranei




 Sono fatto a strati. Immagino questi strati come antiche rovine di una città. Non esiste: “ Roma” ma tante “Roma” di epoche storiche e con ricordi diversi, così anche la mia mente è stata costruita negli anni.

A guardarla così, di passaggio, questa città è proprio bella. Ci sono persino i quartieri. Il quartiere giapponese, per esempio, con tanti tizi che sembrano giapponesi, hanno letto Murakami e amano Hokusai, ma non saprebbero sbiascicare una parola in giapponese nemmeno se dovessero salvarsi la vita.
Nel bel mezzo del quartiere c’è un albero di ciliegio in fiore, è sempre primavera nel quartiere giapponese. Quando ci passo non dimentico mai di sdraiarmi all’ombra di quell’albero.


C’é il quartiere americano, dove Kerouac sballato di amfetamine passa sotto casa del suo amico Dean e gli chiede se ha una sigaretta, lui le ha finite, non ci sono venditori automatici nel quartiere americano.
Ai margini del quartiere americano c’è una palude dove sguazzano i coccodrilli, uno in particolare smangiucchia un cadavere, gli spunta un braccio dalle fauci. Il coccodrillo si chiama Frank. Sopra un albero Jimi Hendrix suona “Little wing” a ripetizione, le dita ormai moncherini. Un bel posticino.

E poi ci sono i bassifondi. Non è un posto dove mi piaccia tornare, in linea di massima lo faccio solo quando sono costretto dagli eventi, ma esistono, sono lì, l’unica cosa che non si può cambiare. Perché volendo posso radere al suolo qualsiasi palazzo, impegnandomi a fondo posso persino pensare di smantellare tutto l’ambaradan dei quartieri spagnoli, ci vorrebbe del tempo, certo, ma potrei farlo. Olè. Ma i bassifondi, quelli no, sono lì dall’origine del tempo, il mio tempo, e ogni roccia, ogni costruzione, ogni catapecchia è ferma e immutabile.

Là sotto è buio, ma non buio pesto, si riconoscono ombre di gatti, morti da millenni, rumoreggiano attorno a delle scatole, in cima ad una vecchia quercia una cornacchia abbaia.

E non esistono pietre che potrebbero scacciarla, quella stronza canta il suo gospel solo per me, da sempre.
Al centro delle catacombe una vecchia chiesa, il tetto è crollato, sull’altare un vecchio prete marcilento osserva immobile chiunque entri. La faccia è pallida e butterata dai vermi, sembra una pallina da golf bruciata. C’é anche un bambino seduto in quella chiesa, sta rannicchiato in un angolino, nascosto da un maglione bucherellato e troppo grande. Il bambino guarda attraverso i buchi, gli occhi sono grandi e vivi, l’unica cosa viva di quel posto.

E ogni tanto devo per forza andare a passeggiarci, nelle catacombe. Quando devo farlo mi preparo bene, indosso il vestito più sporco che ho, quello per le peggiori occasioni, faccio provviste in superficie e poi mi calo nel pozzo che la congiunge ai sotterranei. Ogni volta che ci entro sono sicuro di essere pronto a tutto, pronto al peggio. Ma al peggio non c’è limite.

L’ultima volta c’era un uomo sulla quarantina, in piedi accanto ad un fuoco da campo. Teneva in braccio una bimba in fasce, ma non la cullava. La bambina non piangeva, lo guardava con occhi spalancati senza sbattere le ciglia. Poi l’uomo gettò la bambina nel fuoco, afferrò un fucile e si sparò in testa. Ho provato a salvare la bambina, ma come vi ho detto, tutto è immobile in questo luogo, sono solo un osservatore.

Forse potrei, volendo, distruggere tutto, scendere nel pozzo con una buona quantità di esplosivo, piazzarlo nei punti giusti, accendermi una sigaretta e godermi lo spettacolo.


Ma tutto il resto, i quartieri alti sono stati costruiti su queste fondamenta, crollerebbe. E non mi va di disintegrare tutti quei poveracci che vivono lassù solo per una mia uggia personale.

E così passeggio per questa landa desolata immobile come una pozzanghera e mi guardo attorno. Sembra che abbia sempre qualcosa di nuovo da offrirmi. Oggi per dire, mi sono calato e ho trovato una donna, abbastanza giovane, al massimo trent’anni. Stava sommersa in una vasca da bagno con una scatola di Tavor vuota nel lavandino. Non m’importava granché, non mi sono nemmeno avvicinato per vedere come stava, lo sapevo bene. La cosa più divertente dei sotterranei e che in fondo non mi ci trovo poi così male, li conosco, ci sono sempre stati da che ho memoria e l’immobilità generale mi tranquillizza. Oh si, c’è stata qualche scossa di assestamento ogni tanto, ma niente di sostanziale, qualche casa è crollata in testa agli inquilini, qualche bestiaccia e sparita per qualche tempo, ma il posto è rimasto sostanzialmente immutato.

Continuo a passarci ogni tanto, perché rappresenta una sorta di metro campione nel mio personale museo della disperazione. In fondo quanto male volete che vada? Non ci può essere niente di peggio. Non ci torno perché mi piaccia, ci torno perché mi piace uscirne e ritornare alla luce, camminare fino al ciliegio in fiore e addormentarmici in primavera.

Voi non lo potete sapere, ma dentro quella città disastrata c’è una casa, non ha il tetto, i proprietari la avevano acquistata per ospitarci una famiglia, speravano di costruire il secondo e poi il terzo piano, ma i figli sono andati via e loro sono rimasti soli e senza soldi. Le prime volte che tornavo nei sotterranei entravo spesso in quella casa. Nella cucina un uomo e una donna di mezza età sedevano silenti, fissando un piatto di maccheroni freddi, senza condimento. Non parlano mai, ma quando entro mi fanno un cenno di saluto.
Sul tavolo ci sono altri sei posti, desolatamente vuoti. I piatti di questi ospiti assenti sono sempre pieni fino all’orlo. E non di cibo da niente eh, fette di salmone imputridito, bottariga di alta classe e una forma di Grana Padano non mancano mai.

Le sedie però sono vuote. La povera donna prepara sempre per tutti. Ogni tanto mi siedo al tavolo, lo faccio per lei, spero che si senta meno sola. Non ve l’ho detto, ma ogni tanto quando entro in casa, mi sorride. Penso di starle simpatico, in fondo.

Nel giardino stanno ammassati materiali da costruzione intonsi, il cemento indurito che sarebbe servito per dare nuova gloria a quella vecchia casa è sparpagliato ovunque, formando una sottile patina come di un’eruzione vulcanica. Gabbie che una volta contenevano animali, svuotate dei loro inquilini ribollono di formiche e scarafaggi che nascono dal pavimento. E per finire, nel giardino c’è un albero. Una vecchia quercia secolare, il fusto è segnato dal tempo, graffiato, ma le foglie sono verdi, se ci fosse del vento in questo luogo e non solo questo tanfo putrescente, ondeggerebbero. Quando mi avvicino all’albero un gatto, completamente nero mi si accosta, si chiama Donna Carlotta, le siedo vicino e aspetto. Di solito quando mi avvicino lei mi racconta qualcosa di nuovo, storielle di confine. Donna carlotta è un po’ la pettegola del paese, ricorda tutto e conosce ogni anfratto, sapete come sono fatti i gatti no? Poi certo, raramente capita qualcosa in un posto così, ma io dimentico facilmente e lei è felice di ricordarmi da dove vengo, e le sono grato, chi dimentica da dove viene non può andare da nessuna parte.

Quando voglio andare via mi si strofina contro la gamba e se sono molto fortunato, mi accompagna all’uscita. Ho provato a farla salire in superficie, ma
sapete, la luce gioca brutti scherzi ai gatti morti.

Così mi accontento di portare solo le storie che mi racconta.

E fuori dal pozzo, in mezzo a tutta quella luce, le risate, la gente viva che mi circonda, so di portarmi dietro un po’ di quella puzza, un po’ di quella disperazione. Me la tengo stretta,
ne ho bisogno. Senza di lei sono solo un’altra di queste persone sorridenti che si scambiano pacche sulla spalla e continuano a correre.

Sopra il ciliegio, c’è un corvo, si chiama Poe, la sua storia magari ve la racconto un’altra volta. 

Kurdt.


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